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Dettagli – Terracotta 1

La terracotta è il mondo, è un materiale estremamente diffuso, così versatile che vi sono state costruite intere città.

Le tecniche di utilizzo dell’argilla hanno mille e più  diramazioni specifiche ma nell’essenza resta una delle tecniche più antiche ed essenziali  dell’ingegno umano

La terracotta deriva dall’argilla, l’argilla è un conglomerato non sedimentato di minerali argillosi, per lo più derivanti dal dilavamento o stagnazione in acqua, di rocce contenenti  tali minerali (fillosilicati, a loro volta composti da molti altri minerali; alluminosilicati, caolinite, silicati idrati d’alluminio, eccetera ) I manufatti in terracotta sono detti “Fittili”

L’argilla allo stato umido si presenta in blocchi o conglomerati dall’aspetto viscido e compatto . Il colore dell’argilla può variare a seconda degli ossidi in essa contenuti e sostanzialmente dai luoghi di provenienza. Il tipico colore rosso della terra cotta è dettato dall’ossido di ferro che si manifesta a seguito di cottura.  Tale composto umido è malleabile e plasmabile, allo stato essiccato perde elasticità e mediante cottura diviene terracotta 

Con la terracotta si possono fare i mattoni utili per l’edificazione di case e palazzi, oppure si possono plasmare manufatti decorativi e artistici, oppure ceramiche di rivestimento, pavimenti, vasellame o porcellane.

La differenza sostanziale tra laterizio da costruzione e le porcellane sta nel grado di depurazione dell’argilla. Più l’argilla sarà depurata e più compatto e meno poroso sarà il manufatto cotto. Le terre cotte meno porose sono le porcellane o il grès che solitamente sono caratterizzate da un colore chiaro, quasi bianco, dettato dal caolino che compone in maggior parte l’argilla molto depurata

Altro dettaglio differenziale sta nella finitura di superficie della terracotta. L’argilla lavorata, essiccata e colorata con ossidi metallici a seguito di cottura diviene maiolica. Ovvero gli ossidi policromi stesi sull’oggetto in terra cruda, allo stato di polvere, una volta cotti (980 gradi circa) si fondono, variano di colore, si stabilizzano e creano un sottile strato di finitura assolutamente coeso al manufatto fittile, rendendolo policromo lucido ed impermeabile

La lavorazione dell’argilla è assolutamente versatile e può essere realizzata a stampo oppure plasmata a mano. È molto diffuso ed è meraviglioso trovare su di una tegola o un mattone antico le tracce delle dita che l’hanno lavorato

È molto interessante osservare i decori realizzati con la terra cotta, tra le vie delle città, ve ne sono di antichissimi e di recenti, alcune decorazioni soprattutto quelle dell’architettura, sono ottenute semplicemente allettando il mattone con un angolazione lievemente inclinata e ripetuta sino a divenire cordolo modulare.

Altri decori sono figurativi o scultorei e, dall’attenta osservazione, possiamo dedurre se siano realizzati a mano oppure a stampo o ancora a stampo e poi finiti a mano.

È bene rammentare che  i decori in terracotta hanno delle dimensioni limitate in relazione a quelle  del forno di cottura, per cui sono modulari e, se sembrano molto grandi, significa che sono stati assemblati con grande cura

Anche il semplice mattone da costruzione racconta la sua storia a chi la vuole ascoltare. Dalle dimensioni del mattone dal suo colore e dalla porosità si possono dedurre le fornaci di provenienza e le datazioni.

Dalla superficie scabrosa o liscia del mattone possiamo capire se era nato per essere intonacato oppure per essere finito a vista. Tra quelli nati per essere “finitura” possiamo anche scovare tracce di sagramatura. Una meravigliosa antica tecnica che prevedeva il trattamento superficiale dei mattoni con della calce idrata ed altra polvere di cotto, spesso stesi sulla superficie mediante l’azione abrasiva di un mattone strofinato in senso rotatorio sulla superficie. Il risultato della sagramatura è quella lucentezza naturale della superficie, dello stesso colore del mattone ma di tono più scuro in corrispondenza del mattone e lievemente più chiaro in corrispondenza della malta di allettamento.

Le grandi sculture in terracotta policroma sono dei manufatti affascinanti nei quali l’arte e la sapienza tecnica raggiungono altissimi livelli  e che approfondirò in un prossimo articolo

 

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SilviaContiRestauroConservativo

 

l’uso del trapano nella scultura antica

La scultura è una delle arti più complesse per la sua realizzazione e più potente in quanto a capacità comunicativa di un messaggio artistico

Quando osservo una scultura mi faccio coinvolgere dal suo aspetto d’insieme e poi ne indago i particolari, per individuare e ripercorrere le fasi costruttive e di realizzazione.

Un piccolo segreto che aiuta a comprendere come una scultura sia stata realizzata e, spesso a individuarne la datazione, consiste nell’individuare e seguire i punti lasciati dal trapano

È un minuscolo dettaglio nell’immensa complessità dell’arte scultorea ma delinea la tecnica e la storia della scultura stessa.

Il trapano è uno strumento utilizzato sin dalla più remota antichità, i più antichi erano ad arco

e, gli strumenti in genere erano pochi e semplici

Il trapano veniva utilizzato dopo aver sbozzato grossolanamente il blocco  di pietra. Il trapano si usava in quella prima fase per definire i punti più profondi, ovvero gli “scuri” della scultura. Spesso venivano praticati una serie di fori che definivano la profondità e da li venivano poi rimosse le porzioni di pietra eccedenti, le pareti che dividevano i fori, sino ad ottenere il punto di vuoto, scuro o sottosquadro desiderato. Osservando le sculture antiche, nei punti di scuro, si possono intravedere spesso i fori accostati del trapano utilizzati per raggiungere tale risultato

Il dettaglio che da sempre mi affascina è come il foro del trapano venga utilizzato come elemento decorativo a se stante e, proprio la modalità in cui viene utilizzato il foro del trapano con valenza decorativa può aiutare a datare un manufatto scultoreo

Vi sono periodi storici nei quali la scultura è  fortemente caratterizzata dall’utilizzo decorativo del trapano come ad esempio la scultura longobarda dove il gusto quasi grafico viene mosso ed esaltato da un utilizzo decorativo dei punti scuri e tondi del trapano

ecco due esempi di utilizzo del trapano per fini costruttivi  e decorativi

   

Chissà quanti ne vedrete ogni giorno, se gradite, aggiungeteli nei commenti

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SilviaContiRestauroConservativo

 

Cronaca del saggio stratigrafico

Cosa vedono i miei occhi!?

cosa vedono i restauratori quando salgono un ponteggio, non ci crederete ma vedono cose diverse da quelle che osserverebbero altre persone, altri professionisti

Sbuchi dalla botola e … Oddio il quadrante è completamente rifatto, ma tu guarda e seguono una miriade di brontolii, ma vi pareva il caso di arrivare fin quassù con le vostre malte pre miscelate del cavolo. Avrete fatto anche fatica, sapete che c’è? Ve la potevate risparmiare!

Poi annusiamo, auscultiamo, tastiamo e bussiamo la parete come un segugio, fino a quando ci convinciamo del punto giusto per eseguire il saggio stratigrafico, ecco qui, esattamente qui!

Poi ci giriamo, accidenti, carino da quassù guarda che bel panorama, ciaooo!

Vedi il video panoramico

Ok, non perdiamo tempo, questo è il punto giusto, voglio analizzare questo punto, fammi capire come è stato fatto questo intonaco, chissà che non vi sia qualcosa di decente li sotto.

E si parte con bisturi spatole e piccoli scalpelli, tic, tic, sgratt, garatt.

Accidenti a voi, pure la rete e la colla per piatrelle avete messo, sotto alla pre miscelata… e via con altri improperi e brontolii vari

Nove centimetri, nove centimetri di cemento, con l’aggiunta di una rete da pollaio e la sotto un povero intonaco tardo quattrocentesco langue, questa è insensibilità! Infami!

Quando il cemento supera i 4 centimetri il restauratore sbrocca ed i brontolii divengono mugugni e l’aria diviene truce.

Ok ricomponiamoci, prendiamo gli appunti per la relazione, mi raccomando fredda, distaccata, professionale. Et voilà il saggio stratigrafico è fatto!

Sorridi

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SilviaContiRestauroConservativo

 

La poetica del muro scrostato 2, l’analisi

“la poetica del muro scrostato 2, l’analisi”

Il muro scrostato è poesia per il restauratore, racchiude tutta la storia e le stratificazioni di un edificio storico e la sua lettura è un esercizio professionale, una lezione di storia, tecnica dei materiali ed antropologia culturale

  • Storia perché gli strati di intonaco sono stati eseguiti periodi diversi e di quei periodi storici ci raccontano i dettagli
  • Tecnica perché gli intonaci stratificati in epoche diverse seguono composizioni e tecniche diverse, seppur affini tra loro
  • Antropologia culturale perché ogni strato d’intonaco riflette il pensiero ed il comportamento dell’uomo in un dato periodo storico

Ecco ad esempio una lettura di una stratificazione di un intonaco sulla parete di un’antica torre. Il luogo è impervio eppure di uomini dotati di malta e cazzuole ve ne sono stati… parecchi

Ove vi sono cadute di tale entità è possibile leggere in senso stratigrafico un intonaco, esattamente come fosse un libro di storia

Un dato interessante è notare il comportamento diverso di due intonaci apparentemente identici, quello ottocentesco e quello della seconda metà del ‘900

queste le stratificazioni e mentre penso, mi godo il panorama

  

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SilviaContiRestauroConservativo

 

Prove tecniche di appartenenza o resistenza

Questo mio pensiero è per il senso di appartenenza dei restauratori

Una sorta di sperimentazione tecnica. Un piccolo esercizio di resistenza  da attuare in caso di  commenti,  diffamazioni,  infamie! Il fine? Diventare categoria di restauratori o guru, chissà

Il più delle volte, quando ci si appresta ad affrontare un nuovo intervento di restauro, ci si trova dinanzi all’opera di nostri colleghi restauratori, quelli che ci hanno preceduto, che sono intervenuti anni prima di noi.

Incredibile a dirsi ma capita veramente di rado che un opera non sia mai stata “toccata” o restaurata. Questo in se ha dell’incredibile se si pensa che la disciplina del restauro, così come intesa dalla normativa, è disciplina relativamente recente

Dicevo, se l’opera ha almeno un centinaio di anni è praticamente impossibile  che non sia stata mai sottoposta ad un qualche tipo di intervento, dalla finalità e dall’intenzione più o meno conservativa.   Quelle poche volte che accade, ci si trova di fronte all’opera, magari degradata, ma così come realizzata dall’artista, ecco …  ci si sente di aver scoperto un tesoro.

Tornando alla realtà, non sempre l’opera in questione  è stata restaurata da professionisti restauratori, spesso da pittori nel caso di restauri più antichi, oppure dal volontario della parrocchia che tanto ama l’arte, ma più spesso da decoratori

Sotto il profilo etico e personale preferisco astenermi dal commentare le scelte dei miei predecessori. E per miei predecessori intendo restauratori.

Lo faccio perché credo fermamente che la nascita ed il consolidarsi della credibilità di una categoria professionale, oltre che dalle norme scritte stia nella forza di quelle regole non scritte e non dette, che impongono rispetto e senso di appartenenza 

Ciononostante mi rendo conto di quanto questo possa essere difficile, anche quando, forti delle migliori intenzioni, ci si trova ad esempio di fronte a gratuite diffamazioni, magari indotte da una qualche forma di invidia professionale e, chissà perché ci viene una gran voglia di restituire la cortesia!  È così difficile resistere dal ribattere a tono. Ma non serve, non è etico e sopratutto non favorisce la più alta causa della nascita di una categoria consapevole

Quando sento irrefrenabile il desiderio di ribattere a qualche cialtroneria, provo a pensare a quanto  diffamare e fare cattiverie  sia la cosa più facile ed agevole del mondo. È un dato di fatto: tutti, ma proprio tutti, idioti inclusi, sono capaci di fare e dire infamità.  Per fortuna non tutti cedono a questo declivio dell’anima e l’astenersi dal  diffamare è ben più difficile del suo contrario

Nel panorama sociale  contemporaneo dove vince chi insulta e chi è incline all’odio facile, sarebbe bello che noi restauratori fossimo, nella nostra casacca variopinta di categoria semi inesistente, un’altra volta controcorrente.

Ed è un augurio che faccio a me e a tutta la categoria ufficiale, ufficiosa esistente o no!

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SilviaContiRestauroConservativo

I Restauratori e la sindrome di Paperino

Habemus elenco restauratori Italiani?

Schhhhhh!!!!

Zitti, forse si, ma parlate a bassa voce … scaramanzia,  trepidazione, ansia e, si, anche  paura

Una voce semi ufficiale si è levata dalla  social selva… arriva, è in arrivo. L’angelo annunciante annuncia l’annunciazione: “…, è con grande orgoglio che comunichiamo, … una data storica per i beni culturali italiani!”  Hoooo!

In questi giorni di comunicazioni a mezza voce, mezzo social e mezzo pieno e mezzo vuoto …pare che la commissione abbia concluso i lavori per la selezione della disciplina transitoria per la qualifica di restauratore. Beh si transitoria, transitoria … e non stiamo a pensare in che senso “transitoria”, lasciate stare va, che ci si fa solo del male!

Comunque siamo tutti felici, siamo trepidanti e increduli

La notizia è piccante!

E manco a dirlo ecco affiorare  in noi restauratori la sindrome di Paperino. Si perché noi restauratori siamo  Paperino. Il personaggio di Walt Disney è dentro di noi. Come lui abbiamo un sacco di cugini fortunati, tanti Gastone, che fanno dei bei lavori tutelati e remunerati e poi ci siamo noi, che facciamo il lavoro più bello del mondo ma siamo lievemente sfortunati , un poco insicuri, qualche volte ridicoli e spesso  squinternati

Tornando ai fatti la sindrome si è manifestata non appena comparsa l’ufficiosa officiante notizia:  6300 restauratori. 6300? Ma i conti non tornano! le domande erano almeno il doppio. Ecco lo sapevo hanno silurato un sacco di gente e certamente ci sarò anch’io, certo, con la sfortuna che mi ritrovo non può che essere così. Avranno perso i miei allegati oppure avrò sbagliato a caricarli. Certo avrò sbagliato qualcosa!

L’ansia e le notizie si rincorrono,  si  aggiungono dettagli, ho sentito una collega … è stata contattata, ma i venti giorni previsti per legge? Ci saranno i tempi del ricorso, ma è ufficiale? Daremo battaglia, ho già sentito il mio avvocato, cambio lavoro vado alle Maldive a levigare le tavole da surf… e così via in una crescente insicurezza. Quella di chi non sa cosa sia avere tutele, di chi si ritrova sempre dalla parte sbagliata

Una sola frase, commissari giudicanti: abbiate pietà di noi,  i nostri nervi sono stati messi alla prova come quelli di un ostaggio nel deserto. Non vi è più nulla da spremere, le surrenali ce le siamo strizzate da mò e forse non facciamo più neanche ridere. Se date una notizia che sia quella vera. Altrimenti lasciateci camminare sul nostro filo, nella nostra traballante  insicurezza. Il nostro lavoro è la nostra vita e se non potete darci la rete di sicurezza quantomeno abbiate la bontà di non farci perdere l’equilibrio.

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SilviaContiRestauroConservativo

Immagine di Paperino tratta da Wikipedia

Il ritocco nel restauro

In questo articolo vorrei spendere qualche pensiero sul ritocco nel restauro conservativo

Il ritocco nel restauro conservativo è una delle molte fasi di lavorazione, una delle ultime di un intero restauro. Dal punto di vista conservativo è tra le più semplici. Una volta garantita la reversibilità del pigmento e dei leganti utilizzati per lo stesso, non vi sono problemi, nel senso che potrà essere agevolmente rimosso in un futuro intervento, senza danni per l’opera.

Eppure il ritocco è una di quelle fasi del restauro che può determinare o compromettere l’intera  riuscita di un restauro. Può determinare la leggibilità di un opera o la può compromettere, proprio perché si occupa del livello estetico di percezione, fruizione e leggibilità . Infatti il tipo di ritocco viene concordato, in via preventiva, con il funzionario competente della Soprintendenza, quasi mai viene lasciato al libero arbitrio del professionista.

Per ritocco si intende l’integrazione pittorica di piccole e medie lacune della superficie pittorica di una data opera d’arte, finalizzato a facilitare la lettura dell’opera stessa.

Il ritocco può riguardare molte delle tipologie di opera soggette a restauro; dai dipinti ad olio su tela e tavola, agli affreschi, ai grandi elementi decorativi dell’architettura, alla scultura policroma e dorata, agli stucchi, e molte altre superfici decorate e policrome.

Vi sono varie tecniche di ritocco che spesso si suddividono a seconda della volontà progettuale del restauro di rendere o meno visibile, distinguibile o riconoscibile (ad occhio esperto) il ritocco dalla superficie originale

Tra le più diffuse tecniche di ritocco vi sono il rigatino, il puntino o le piccole macchie che tendono a creare una sorta di cucitura della trama perduta, la selezione cromatica, la velatura a tono o sotto tono ed il mimetico

Il ritocco costituisce anche una prova di abilità per noi restauratori. Una sorta di esercizio di meditazione, quasi ipnotico, che ti può mettere in contatto profondo con l’essenza dell’opera d’arte e ti consente di sentirne ed interpretarne la voce, come un musicista quando esegue uno spartito. E quando scopri di averlo interpretato nel modo corretto, proprio come l’autore intendeva, puoi toccare il cielo!

 

Quando mi reco nella galleria degli Uffizi a Firenze e mi perdo dinanzi  alla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto, guardo il basamento, quello con le arpie e le iscrizioni, in gran parte  ricostruito con la tecnica a rigatino, arpie comprese. Credo sia stato restaurato agli inizi degli anni ’80 del ‘900.  Ecco quando lo guardo, non voglio più sapere cosa penso sotto il profilo ideologico, di quel tipo di integrazione scelta, ebbene, vorrei solo baciare in fronte quel genio che lo ha ritoccato, colui o colei che ha realizzato quell’opera d’arte nell’opera. Grazie, una vera delizia per una restauratrice!

Il ritocco è anche la fase di lavorazione più soggetta in assoluto alle mode del momento, dal tipo di ritocco che vediamo su di un opera possiamo determinare con una discreta agilità il periodo in cui è stato restaurato ed anche l’area geografica.

Normalmente è la prima parte di un restauro che viene eliminata dal successivo e, con essa se ne vanno il pensiero e il gusto percettivo di un dato periodo storico. Per questo documentare il restauro diviene esercizio di storia dell’arte

 

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SilviaConti  RestauroConservativo

 

Analisi dei danni – ridipinture 1

In questo articolo vorrei analizzare una frequente tipologia di danno che riguarda in genere le superfici dipinte policrome, sia di dipinti murali a fresco che a secco, dipinti su tela e opere lignee policrome. Parlo della presenza di strati di colori a corpo soprammessi alla pellicola pittorica originale. 

In buona sostanza, ci si trova dinanzi ad altri restauri che per motivi  molto diversi e variabili, si sono trasformati nel tempo in un “danno“.

In alcuni casi si tratta di ritocchi alterati, ovvero piccole porzioni o pennellate di colore utilizzato per integrare lacune che, avendo una grado di stabilità alla luce diverso da quello originale, hanno assunto nel tempo colorazioni difformi rispetto ai pigmenti originari, che dovevano integrare.

In altri casi sono vere e proprie ridipinture, ovvero ampie e complete stesure di colore più o meno a corpo che ricoprono e riprendono le forme della sottostante opera d’arte

I colori soprammessi che ci troveremo dinnanzi possono essere di svariata natura e variano a seconda di una serie di fattori, che vanno dalla peculiarità territoriale  alla datazione, e una serie di altre variabili.

Se è possibile ottenere  della documentazione in merito a questi vecchi interventi, ci sarà di grande aiuto. Tuttavia, in molti casi è necessario saper distinguere il materiale soprammesso direttamente dall’analisi visiva e tattile, al fine di poterlo rimuovere con maggiore precisione.

Se la superficie ridipinta  è un elemento decorativo dell’architettura ed  stata eseguita da un decoratore o genericamente “pittore”, potremmo trovarci di fronte grossomodo alla seguente tipologia di materiale

  1. Se l’intervento è precedente agli anni ’60 del ‘900 sarà probabile trovare casseati di calcio, colori a calce e tempere con leganti organici
  2. Se l’intervento è stato realizzato dagli anni ’60 ’70 del ‘900 potremmo trovarci di fronte a  tempera o calce, ma possiamo contemplare anche   la comparsa dei primissimi vinilici, nati per il restauro del legno ma dilagati poi su ogni superficie
  3. Se l’intervento è stato realizzato dagli anni ’80 del ‘900 ad oggi  è molto probabile che sia realizzato con colori   acrilici o polivinilici, genericamente di quelli in vendita nei colorifici

Se la superficie ridipinta riguarda una scultura lignea policroma prepariamoci ad affrontare smalti ed affini, i più antichi saranno smalti all’olio, poi smalti sintetici ed infine smalti all’acqua, paradossalmente questi ultimi sono i più tenaci da rimuovere.

In questo articolo vorrei analizzare un caso specifico di intervento di ridipintura su di una superficie a fresco realizzata attorno agli anni 80 del ‘900

In questo caso vediamo un esempio di ripresa di un dipinto a fresco con colori a corpo di tipo acrilico

Innanzitutto è bene osservare il dipinto a luce radente, così da poter individuare i sollevamenti della pellicola pittorica e le eventuali porzioni  “lucide” che segnalano la presenza di materiale acrilico o vinilico

Un dato  che ci consente di riconoscere il tipo di ridipintura è il suo degrado, ovvero il tipo di sollevamento e distaccamento della pellicola pittorica. Attenzione si intende quella di ritocco. Ebbene questo strato di colore, in presenza di umidità, si distaccherà dalla superficie, prima a piccole bolle gommose e poi a scaglie .

Nella fase immediatamente precedente il distacco potremo osservare, come nell’immagine seguente, una diffusa ossidazione della pellicola polivinilica soprammessa. Questa diverrà opaca, lattiginosa e comincerà a creare delle tensioni superficiali che porranno le condizioni per il distacco  ed il sollevamento della pellicola pittorica

Nell’immagine d’insieme si può osservare come in luogo delle cadute della pellicola pittorica di ritocco, permangano comunque tracce di colore, che guarda caso resistono al passaggio dei sali solubili di nitrato, poiché sono i pigmenti naturali originari del dipinto

Appuntamento ai prossimi articoli per analizzare altre tipologie di ridipintura!!

Testi e immagini SilviaConti@RestauroConservativo

Colore o non colore Il NERO

Il nero è un colore?

Probabilmente si, ma forse no. Non è di facile interpretazione  poiché il nero è spesso definito un “esperienza visiva”. L’ottica e la fisica lo definiscono in tal modo

Mi spiego meglio; Neri sono definiti quei pigmenti che hanno la capacità di assorbire la luce, più la assorbono è più risultano neri. In conseguenza a ciò ci risulta difficile comprendere con precisione a quali colori ci troviamo di fronte.

Nella scala RGB il nero è pari a zero; zero rosso, zero verde e zero blu, l’esatto opposto del bianco che rappresenta l’espressione massima dei colori, il nero la minima, anzi l’assenza

 

Il nero ha in se, un non so che di magico e spaventoso al contempo. È infatti quel pigmento che, pur in presenza di luce, ci da l’effetto o l’esperienza del buio totale, della notte. Assorbe, trattiene, risucchia tutta la luce sulla sua superficie, anche in pieno giorno. I pigmenti neri e gli oggetti colorati da tali pigmenti costituiscono un angolo di notte permanente e invincibile in qualsiasi ora del giorno.

Spaventa e attrae al contempo, non a caso, connessa al colore nero vi è una fitta simbologia. Spesso di carattere negativo, ma anche di eleganza ed austerità.

Chi dipinge sa che il colore nero ha un potere immenso, se utilizzato con sapienza può rendere il messaggio di un’opera unico e potente, utilizzato a sproposito o in misura eccessiva può uccidere l’opera stessa.

A tal proposito mi viene da pensare a dei grandi artisti che hanno utilizzato il nero con sapienza, rendendo le proprie opere magnetiche e possenti, ve ne sono molti ma i primi che mi appaiono alla mente sono  Mario Sironi ed Emilio Vedova. Due pittori che utilizzavano molto nero e riuscivano a dominarlo, operazione veramente ardua.

Sono opere di epoche diverse con messaggi artistici differenti tra loro eppure hanno un unico denominatore della potente attrattiva che l’utilizzo del nero esercita. Queste e molte altre considerazioni si potrebbero fare sul nero.

Nei colori dei materiali di utilizzo quotidiano il nero è molto utilizzato, anche nei colori chiari, una minima quantità di nero garantisce spesso stabilità ai colori.

Ma come sempre io mi occupo di materia del restauro, quindi di materiali tangibili, ed andrò ad analizzare i principali pigmenti neri che si utilizzano e si incontrano nel restauro.

I pigmenti neri reperibili in commercio si suddividono nelle seguenti categorie

  1. Pigmenti neri di origine organica Animale
  2. Pigmenti neri di origine Organica minerale o vegetale
  3. Pigmenti neri inorganici di sintesi

Nero di vite

Il nero di vite è un pigmento naturale di origine organica minerale, è ottenuto dalla bruciatura e conseguente calcinazione di legno e viticci di vite. È un nero caldo, molto diluito tende al colore di terra. Ha una granulometria sottilissima ha un buon potere colorante e si mescola molto bene a qualsiasi impasto sopratutto se a  base acquosa Ha una grande stabilità alla luce, perfettamente compatibile con la calce idrata, nel campo del restauro … non tradisce mai. È utilizzato sin dall’antichità e se ne trova traccia, su dipinti murali a fresco e ad olio, senza soluzione di continuità sino ai giorni nostri

Nero Avorio

Il nero  di avorio è un  pigmento naturale di origine animale deriva dalla bruciatura e lavorazione dell’avorio (in antichità) e delle ossa animali (ai giorni nostri). È un nero freddo, molto diluito tende al blu violetto. Presenta una granulometria sottilissima dall’effetto quasi vellutato, un potere colorante medio ed una buona stabilità alla luce. Ha un basso peso specifico, galleggia infatti sull’acqua. Ha un buon impiego nel restauro

Nero Fumo o di Germania

Il nero fumo è un pigmento organico naturale, per lo più  di origine vegetale ma vi sono anche varianti  animali. Infatti questo pigmento, che gli antichi chiamavano anche nero carbone, deriva dalla bruciatura e lavorazione di legno, cera, resine, grassi ed altre materie. Ha una derivazione variabile e per questo motivo risulta difficile definire con precisione le sue caratteristiche peculiari, nell’utilizzo per il restauro può avere risultati variabili a seconda della sua composizione per cui non da sicurezza. È un pigmento molto diffuso sin dall’antichità è molto coprente e resistente alla luce.

Nero Roma

Il nero Roma è un pigmento di origine minerale naturale, deriva infatti dalla macinazione del carbon fossile e più specificamente dalla lignite terrosa, un carbon fossile ad uno stadio poco avanzato di carbonizzazione e sedimentazione.  Si tratta di un materiale povero, come tale anche lo è anche il pigmento che ne deriva (nero Roma).  Poco nero, è infatti vagamente grigiastro, poco coprente, poco colorante e mediamente resistente alla luce. Tuttavia trova una buona compatibilità con i materiali del restauro. Anche il nero Roma è utilizzato sin dall’antichità.

Nero Grafite

Il nero grafite è un pigmento minerale naturale, esso deriva infatti dalla frantumazione dell’omonimo minerale. Lo stesso da cui deriva la grafite delle matite da disegno. Si presenta grigiastro, brillante ed untuoso al tatto. Molto bello per gli effetti iridescenti tipici del minerale da cui deriva. Molto difficile da disciogliere in composti acquosi, poco resistente alla luce e sconsigliato  l’utilizzo nel campo del restauro, anche per il contenuto, seppur parziale, di ossido di ferro, assolutamente poco stabile.

Nero Ossido

Il nero ossido, detto comunemente anche nero di Marte è un pigmento inorganico minerale derivato da processo di sintesi dell’ossido di ferro. Ha un altissimo potere colorante e coprente, un alta resistenza alla luce ma è del tutto inadeguato alle esigenze del restauro in quanto, come tutti gli ossidi, trova stabilità chimica solo attraverso la cottura o se immerso in composti acrilici o sintetici. A contatto con l’alcalinità della calce idrata è assolutamente imprevedibile e rischioso.

Nero di Spagna

Un pigmento ormai introvabile ma molto diffuso dalla rivoluzione industriale sino alla metà del ‘900 è ottenuto dalla bruciatura e calcinazione del sughero. Un pigmento dalla granulometria sottilissima e leggera ma poco resistente alla luce e inadatto al restauro. Tale pigmento si può trovare in alcune tempere o dipinti murali a secco di inizi ‘900

Nero di Manganese

Il nero di manganese è un pigmento inorganico minerale derivato da un processo di sintesi. Sostanzialmente un biossido di manganese. Oggi molto diffuso nelle preparazioni a tempera poiché è un prodotto di scarto della lavorazione chimica delle industrie. Sconsigliato per il restauro

Bitume

Il bitume non è di fatto un pigmento ma un composto oleoso nerastro con il quale ogni restauratore prima o poi viene a contatto, basti pensare a tutte le velature dei dipinti antichi ottenute con questo sottile composto. È derivato da cere e petroli mescolati con polveri e residui fumosi. Veniva disciolto nell’olio oppure nelle cere, aveva la caratteristica di annerire lievemente le superfici trattate mantenendo tuttavia una discreta trasparenza. Se ne può osservare l’utilizzo nei dipinti ad olio di Giulio Romano, sui mobili antichi e nei punti d’ombra delle cornici dorate.

Carboncino e Fusaggine

Non si possono definire propriamente pigmenti, sono materiali da disegno e spolvero. Il carboncino naturale è detto fusaggine dal nome della pianta da cui deriva, molto friabile e morbido e spesso conserva la forma dei bastoncini di fusaggine carbonizzata . Inconsistente, morbida  e friabile è altrettanto volatile, una volta tracciata sulla carta. Il carboncino è più compatto e può avere vari componenti, spesso elementi canonizzati come fusaggine, vite o salice, oltre ad antracite e colla animale, il tutto compresso in bastoncini a sezione quadrata rotonda. Sono più compatti ma altrettanto difficili da conservare nel tempo. Non per la resistenza del nero alla luce, bensì per lo scarso legante da cui sono caratterizzati. Non si usano nel restauro, ma si incontrano spesso, nel restauro della carta e nelle tracce di spolvero di alcuni affreschi.

Inchiostro

Anche questo non è un pigmento ma un composto derivato dal pigmento utilizzato per specifiche tecniche del disegno o pittoriche. Il più antico e forse famoso è l’inchiostro di China, arriva dall’oriente ed è composto da nero carbone, legante organico e acqua. A differenza del carboncino è assolutamente indelebile. L’inchiostro da stampa si differenzia dall’inchiostro di china o da scrittura poiché si presenta in pasta e non in soluzione acquosa. È caratterizzato da un composto molto variabile che comprende pigmenti, coloranti in sospensione di tipo sintetico o minerale, amalgamati in pasta con derivati dal petrolio. Risulta indelebile. Costituisce un capitolo molto importante per i restauratori della carta.

Questi i neri che mi sono venuti alla mente, ma ve ne sono molti altri e se volte contribuire, aggiungeteli nei commenti

Testi di SilviaConti©RestauroConservativo